sabato 29 ottobre 2016

Brain Training: tra mito e realtà

La possibilità di migliorare le proprie prestazioni cognitive è un tema estremamente interessante e dobbiamo ammettere che alla nascita di quei giochi virtuali che rientrano nel genere del Brain Training siamo rimasti da subito colpiti dalla facilità e rapidità di miglioramento proposte dai loro produttori.

Dopo il boom iniziale però ci si è chiesti quanto effettivamente siano vere tali promesse e secondo il documento “A Consensus on the Brain Training Industry from the Scientific Community”, promosso dallo Stanford Center on Longevity negli USA e dal Max-Planck-Institut di Berlino e pubblicato 2 anni fa, non vi sarebbero prove solide che questi programmi possano modificare le reti neurali in modi che risultino vantaggiosi per le attività della vita di ogni giorno.

Le persone diventerebbero semplicemente più brave a svolgere quel compito o compiti molto simili.

Grandi aspettative sulle potenzialità del Brain Training si ebbero a partire dallo studio di Susanne Jaeggi nel quale i partecipanti furono inizialmente sottoposti a un test che valutava la loro intelligenza fluida (Gf), ovvero la capacità di risolvere nuovi problemi indipendentemente dalle conoscenze pregresse. Successivamente furono creati due gruppi: un gruppo di controllo e un gruppo in cui i soggetti si esercitarono in un compito definitodual ‘n back”, il quale richiede di prestare attenzione a stimoli provenienti da due modalità sensoriali distinte (solitamente quella acustica e quella visiva).

Infine i due gruppi furono sottoposti nuovamente a un secondo test di valutazione della Gf, nel quale il gruppo “dual ‘n back” ebbe risultati notevolmente migliori rispetto a quelli del gruppo di controllo. Ciò che colpì fu la velocità con la quale un tale risultato fu ottenuto: dopo sole 4 settimane di allenamento infatti i partecipanti ebbero un incremento significativo della Gf con possibili importanti risvolti nella vita di ogni giorno.

Lo studio venne pertanto inserito nelle 100 scoperte scientifiche più importanti del 2008.

Ma le critiche non tardarono ad arrivare; tra le più importanti vi era il fatto che lo studio della Jaeggi mancasse di un vero e proprio gruppo placebo, ovvero un gruppo che fosse stato istruito ad allenarsi per un compito non correlato con la memoria.

Successivi studi condotti su gruppi “trattamento”, “placebo” e “controllo” non furono infatti in grado di replicare i risultati del primo esperimento e anche le metanalisi confermarono che gli effetti del Brain Training fossero trascurabili.

Tutto ciò avvalorerebbe infatti quanto trovato dall’Abecedarian Early Intervention Project, un significativo studio risalente a più di trent’anni prima, che aveva dimostrato quanto fosse difficile aumentare il Q.I. in persone normali (ricordando che il test del Quoziente Intellettivo non indaga tutti i tipi di intelligenza) tramite programmi anche particolarmente intensi.

In questo esperimento 111 bambini furono divisi in due gruppi: il primo gruppo fu sottoposto a un elaborato programma educativo che prevedeva l’utilizzo, tra i vari, dei precursori degli attuali Brain Games, mentre il secondo gruppo fu attentamente seguito sul piano sociale, sanitario e alimentare, così da essere sicuri che tali fattori non influenzassero i risultati finali.

I bambini all’inizio dello studio avevano in media 4 mesi e furono seguiti fino ai 5 anni e dopo più di 4 anni di prolungato allenamento il primo gruppo dimostrò un incremento medio di circa 6 punti Q.I., un incremento abbastanza modesto.

BrainTraining_SalemmePer soggetti sani intenzionati ad aumentare le proprie capacità cognitive sembrerebbe dunque una strategia migliore investire il tempo dedicato al Brain Training in attività che sono già state dimostrate essere efficaci a tale scopo quali l’esercizio fisico, in particolare quello aerobico, e imparare nuove abilità come ad esempio cucinare, parlare una nuova lingua o suonare uno strumento.

Il Brain Training è dunque solamente una trovata commerciale?

In realtà alcuni programmi di Brain Training hanno dimostrato una loro utilità, ma non nei soggetti per i quali sono stati tanto pubblicizzati.

Uno studio pubblicato sul “Journal of Clinical Oncology” suggerisce ad esempio un loro possibile impiego nel miglioramento delle performance cognitive di pazienti onco-pediatrici.

I pazienti che sopravvivono al cancro soffrono spesso di un’importante riduzione delle così dette Funzioni Esecutive, tra cui la memoria di lavoro, l’attenzione e il multitasking e ciò si ripercuote sulla loro qualità di vita.

Nello studio 68 bambini di età compresa tra gli 8 e i 16 anni, tutti sottoposti a irradiazione cranica e chemioterapia intratecale (iniezione di farmaci antitumorali direttamente nel liquor), sono stati suddivisi in due gruppi: un gruppo di controllo e un gruppo cui è stato assegnato un programma di Brain Training svolto a computer. Entrambi i gruppi sono stati poi seguiti per 6 mesi, all’inizio e al termine dei quali i partecipanti sono stati sottoposti a studi fMRI durante l’esecuzione di un compito mnemonico.

L’fMRI ha dimostrato, al termine dei 6 mesi, che i bambini che si erano allenati con i programmi al computer attivavano meno le aree prefrontali, svolgevano quindi i compiti più efficacemente senza la necessità di elaborare strategie compensatorie. Il miglioramento della memoria di lavoro, ottenuto grazie al Brain Training, avrebbe portato anche a un miglioramento della qualità di vita.

Un ulteriore esempio di come il Brain Training possa portare benefici in ambito patologico è rappresentato dai pazienti con schizofrenia.

Sebbene i sintomi psicotici di questi pazienti siano oggi ben contenuti grazie ai farmaci, un grosso problema rimane invece l’evidente indebolimento cognitivo tale da impedire loro di ritornare a lavorare o studiare.

In un ristretto studio svolto al Dipartimento di Psichiatria di Cambridge 22 pazienti con schizofrenia sono stati suddivisi in due gruppi: un gruppo di controllo e un gruppo sottoposto a un programma di allenamento basato sull’app Wizard sviluppata ad hoc dai ricercatori per questi pazienti.

Sia all’inizio che al termine del periodo di osservazione sono state valutate attentamente la loro memoria episodica, la soddisfazione e la motivazione, nonché la scala GAF (Global Assessment of Functioning) utile per esplorare parametri sociali, occupazionali e psicologici.

I pazienti che si sono allenati con Wizard sono andati incontro a un miglioramento sia della memoria episodica che dei punteggi GAF, dimostrando un’estensione dei benefici ai normali compiti quotidiani, ma soprattutto sono rimasti piacevolmente colpiti dall’app ed erano motivati a continuare nell’allenamento, aspetto non da poco considerando che tra le varie sfaccettature della schizofrenia vi è proprio un calo della motivazione.

In conclusione se il Brain Training, ad oggi, non si è dimostrato efficace nei soggetti sani a migliorare significativamente le abilità cognitive e rallentare il declino mentale tipico di alcune patologie neurodegenerative, al contrario è promettente in diverse categorie di pazienti, per i quali sarebbero necessari dunque più studi sull’applicabilità di questi programmi.

Fonti | (1) Consensus; (2) Journal of Clinical Oncology; (3) Cambridge

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Fonte: http://lamedicinainunoscatto.it/2016/10/brain-training-tra-mito-e-realta/

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