venerdì 30 dicembre 2016

Farmacogenetica e il Modello Vanderbilt

Modulare i trattamenti farmaceutici sul patrimonio genetico individuale sembra rappresentare uno dei traguardi da raggiungere nell’immediato futuro.

La Vanderbilt University di Nashville, Tennessee, già da qualche esegue uno screening su alcuni dei geni che interferiscono con il metabolismo dei farmaci ad ogni nuovo paziente, arrivando a creare un database con oltre 9000 profili. Questo ha portato ad un aumento dell’appropriatezza nelle prescrizioni mediche, con una riduzione importante degli effetti avversi.

Quasi tutti i farmaci, una volta somministrati, vengono sottoposti al cosiddetto effetto di primo passaggio. Questo può avvenire nell’intestino o nei polmoni, ma principalmente a livello epatico. In sintesi, i farmaci vengono metabolizzati e trasformati in seguito a varie reazioni enzimatiche che andranno a formare il metabolita attivo, pronto ad esplicare la sua azione terapeutica, o quello inattivo, da eliminare. Altre volte ancora, si verrà a formare un composto tossico che, in dosi massicce, può essere pericoloso per la salute. (un esempio: il metabolismo del Paracetamolo, con formazione di un metabolita tossico che in dosi elevate può essere letale.)

Si stima che circa il 30% della popolazione globale abbia varianti genetiche degli enzimi, epatici e non, che possono interferire con il metabolismo dei farmaci.  Quando questi sono insufficienti, il farmaco non è metabolizzato e può non esplicare la sua funzione terapeutica. Al contrario, gli individui che mostrano troppe copie del gene che produce l’enzima, lo produrranno in eccesso con il rischio di un aumento della dose biodisponibile e quindi un aumentato rischio di tossicità.

Esempi possono essere i polimorfismi del gene CYP2D6, che in difetto non riesce a convertire la codeina in morfina, causando una mancata efficacia analgesica anche ad alte dosi, mentre in eccesso può portare ad un’abnorme biodisponibilità della morfina anche a basse dosi e quindi un’overdose.

Oppure, le alterazioni del gene SLC01B1 che portano ad un mancato metabolismo della simvastatina,un farmaco molto usato nella terapia dell’ipercolesterolemia.

Ed ancora, il deficit della Glucosio-6-fosfato deidrogenasi, enzima importante della glicolisi, che porta ad anemia emolitica in seguito all’assunzione di alcuni farmaci, come gli antimalarici.

Il metodo Vanderblit ha evidenziato come i test sulla compatibilità genetica potrebbero abbassare drasticamente il rischio di fenomeni avversi, attraverso l’utilizzo di un database che segnali l’incompatibilità o meno di un determinato farmaco per la terapia di un determinato soggetto.

Gli ostacoli ,però, all’adozione di questo protocollo sono i costi e la confusione che regna tra i medici riguardo l’interpretazione e l’applicazione del profilo genetico individuale dei pazienti.

Ma la Vanderblit precisa che basterebbe mappare solo un limitato cluster di 20 geni, quelli più implicati nel metabolismo dei farmaci, abbattendo enormemente i costi e rendendo la metodica accessibile a tutti.

Infatti, negli Stati Uniti ci sono molte strutture e persino le compagnie assicurative che stanno inserendo il profilo genetico dei pazienti nella loro routine anamnesica. Si spera che nei prossimi anni, anche altri stati inizino a prendere esempio dalla Vanderblit, con un notevole miglioramento dell’assistenza medica e della spesa sanitaria, evitando effetti avversi che si potrebbero evitare con un semplice test genetico.

 

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Fonte: http://lamedicinainunoscatto.it/2016/12/farmacogenetica-e-il-modello-vanderbilt/

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